Nel dicembre 1937 Anna Laetitia Pecci Blunt, già nota nell'ambiente artistico e culturale romano come figura di colta mecenate e gallerista (nel 1935 aveva aperto a Tor de' Specchi la Galleria d'arte della “Cometa”), inaugurava a New York “The Comet Art Gallery”, al fine di promuovere l'arte contemporanea italiana, quasi del tutto sconosciuta negli Stati Uniti. L’iniziativa germinava all’interno e si faceva partecipe di quella politica culturale - ancora poco indagata -intrapresa dal regime negli anni Trenta, volta a costruire una cultura nazionale moderna aggiornata sui modelli stranieri; una posizione di centralità assoluta era occupata dagli Stati Uniti, quintessenza del progresso e della mobilità senza limiti, modello esemplare cui l'Italia “rigenerata” doveva tendere. Secondo questa visione, la galleria americana, finora considerata dagli studi quale mera succursale, proiezione o prolungamento oltre oceano di quella romana, costituisce, significativamente, l'espressione concreta di un'azione culturale dai contorni ben definiti.
Complice la strategica posizione nel cuore di Manhattan, a poca distanza dal MoMA e dalle grandi gallerie newyorkesi, nonché la fitta rete di relazioni che Anna Laetitia aveva saputo tessere con abilità avvalendosi delle conoscenze di suo marito Cecil Blunt, il nome della “Cometa” in breve tempo figurava nelle riviste e nei giornali locali accanto alle più note e dinamiche gallerie della città. Le frequenti pubblicità e gli articoli comparsi sui periodici hanno permesso di ricucire il programma completo delle mostre, la prima delle quali, secondo il catalogo ritrovato alla Public Library di New York, proponeva una rassegna antologica di sedici artisti, tra i quali Afro, Severini, De Chirico, Campigli, Casorati, De Pisis, Morandi e Cagli.
La breve esistenza della galleria, costretta a chiudere nell'estate del 1938, non permise di produrre sul terreno americano quel segno profondo auspicato dalla contessa, ma l’alto valore dell'impresa fu riconosciuto dalla critica americana se, nel 1939 in occasione della Fiera Universale di New York, il giornalista del New York Times E. A. Jewell ricordava con grande rimpianto la galleria, senza la quale era venuta a mancare una delle rare opportunità per l’America di essere informata sugli sviluppi dell’arte contemporanea italiana.
In December of 1937, Anna Laetitia Pecci Blunt, already a noted figure in Roman artistic and cultural circles as an educated patron of the arts and sophisticated gallery owner, opened “The Comet Art Gallery” in New York City, with the aim of promoting contemporary Italian art, almost completely unknown in the United States. The initiative was born in the context of and incorporated in the cultural policy – still largely unexplored – undertaken by the Italian regime in the 1930s, aimed at building a modern national culture that was up to date with foreign models. In this respect, the United States, quintessential symbol of progress and endless mobility, occupied a central role: the exemplary model to be followed by the new “Italia rigenerata”. According to this vision, the American gallery, heretofore considered a mere branch or extension of the Roman gallery, became a significant and concrete expression of a well defined cultural policy.
Thanks to its strategic position in the heart of Manhattan, near the MoMA and the big New York galleries, and thanks to the close network of relationships that Anna Laetitia had so skilfully established, taking advantage also of her husband Cecil Blunt’s contacts, the name of the “Comet” soon began to appear in magazines and local newspapers next to those of the most important and dynamic galleries in the city. The frequent advertisements and magazine articles have been instrumental in reconstructing the complete programme of exhibitions, the first of which, according to the catalogue found in the New York Public Library, proposed a group show of sixteen artists, including Afro, Severini, De Chirico, Campigli, Casorati, De Pisis, Morandi and Cagli.
The gallery’s brief existence–it was forced to close in the summer of 1938–was not long enough for it to leave the profound mark on the American art scene that the countess so dearly desired. However, American critics recognized the value of the enterprise, as documented by the journalist E. A. Jewell of the New York Times in 1939, upon the occasion of the New York World’s Fair, who remembered the gallery with a sense of great regret, its loss having meant that America had lost a rare opportunity to follow developments in contemporary Italian art.
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