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Resumen de Regole di giudizio e garanzie del reo nel processo contro Gesù di Nazareth. Dalle formalità dell’istruzione sinedrile alle libertà retoriche dell’inquisizione romana imperiale

Giovanni Brandi Cordasco Salmena

  • Quanto si legge in Matteo, 26,59, relativamente all’istruzione probatoria che il Sinedrio condusse nei confronti di Gesù di Nazareth, va inteso in un senso quasi completamente diverso rispetto a ciò che riferisce, più diffusamente, Marco in 14,55-56a. Il Sinedrio cercava prove contro l’indagato onde ottenerne una condanna esemplare ma non le trovava: molti testimoniavano il falso viziando le deposizioni come contraddittorie. Ciò significa, dunque, che il Collegio non volesse reperire false testimonianze. Nel testo dell’Evangelista risulta evidente l’affanno con cui è perseguita l’iniziativa giudiziaria ma ciò non giustifica il dubbio che l’acquisizione del corredo probatorio maturasse irritualmente se non addirittura in maniera malevola. Per contro l’inchiesta divenuta impellente in quei giorni di Pasqua, aveva precorso quasi tutta la vita pubblica del Nazareno, sicché la sua predicazione risulta già punteggiata da vivaci dibattiti con avversari diversi ma tutti rappresentanti di volta in volta l’autorità (farisei ed erodiani, farisei e sadducei, farisei, sacerdoti e capi del popolo).

    Da questo punto di vista anche sulla base di una recente suggestione urbinate di Massimo Miglietta, persino innovando a quanto sostenuto in precedenza, in altri scritti, si propende per l’ipotesi che nel processo criminale esercitato contro Gesù di Nazareth la funzione del Sinedrio sia stata volta ad un’istruttoria concentrata sulle prove da deferire non solo alle autorità ebraiche ma anche a quelle romane, con particolare riferimento al crimine di laesa maiestas, la cui cognizione avrebbe di certo interessato queste ultime. In parziale difformità a quanto espresso negli altri già detti scritti dove risultava inconciliabile il capo d’accusa accertato dal Sinedrio rispetto a quello che ha legittimato la sentenza di Ponzio Pilato, e muovendo dallo stato della più recente ricerca storica, specialmente per ciò che riguarda i diritti dell’antico Mediterraneo e dell’analisi retorica biblica e semitica, è riconsiderata la portata della fase sinedrile come non più del tutto indipendente da quella procuratoria. Anche dietro il conforto dell’intero narrato del Vangelo di Giovanni circa i fatti della Passione ma soprattutto del rilevante apporto incrementato da un maggiore interesse sulle fonti apocrife, i quali inducono ad una differente connotazione della blasfemia, astraendola dai contorni di una semplice dichiarazione messianica, è lecito argomentare che la contestazione ebraica possa avere assunto un rilievo plurioffensivo tale da essere stato assorbito dalla laesa maiestas.

    Il Vangelo di Pietro ed il Vangelo di Nicodemo (v. soprattutto Vang. Pt. 4,11; Vang. Nicod., vers. gr. A, 1,1), entrambi redatti, all’origine, tra la fine del I e l’inizio del II sec. d.C., ossia, significativamente nell’ambito di uno scorcio temporale dove parimenti si collocano i Vangeli canonici, confortano da più fonti una tale rivisitazione. L’uso del verbo κατηγορέω da parte di Nicodemo non lascia margine interpretativo agli intenti dei massimi esponenti della Nazione ebraica, i quali non possono che essere intesi come un formale atto di accusa, cui segue, a maggior ragione, l’addebito del crimine (blasfemia - laesa maiestas) nella sua struttura per l’appunto plurioffensiva. Posta la domanda del Procuratore: che cos’è che costoro attestano contro di te? (τί οὗτοί σου καταμαρτυροῦσιν) la risposta dei sinedriti (καταμαρτυρέω) è sintomatica della dimensione solenne dell’accusa.

    Dunque se non con la stessa perentorietà di Miglietta, si giunge a ritenere che dopo l’istruttoria sinedrile fondata sul rigore proprio della procedura ebraica si sia svolta dinanzi al Procuratore romano la fase del giudizio nella forma consueta delle libertà retoriche dell’inquisizione tardoimperiale culminata nell’emissione di una sentenza di morte con pena tutta romana. È assodato che la decisione di arrestare Gesù di Nazareth non fu per nulla un atto estemporaneo per come erroneamente si è radicata la communis opinio, anzi non può essere taciuto che già dopo talune clamorose manifestazioni soprattutto dopo la prima Pasqua a Gerusalemme, quando cacciò i mercanti dal Tempio arrogandosi scopi messianici, il Gran Sinedrio aveva cominciato a raccogliere elementi di prova contro di lui nel corso di un’inchiesta condotta attraverso la rigorosa assunzione prevista non solo dalla Torah ma, minutamente, anche dalla Mishnah. Da ciò inoltre appare chiaro che i sinedriti non pensavano soltanto ad un rilievo delle contestazioni dinanzi al Collegio ma, forse, ancora di più ad un rilievo delle contestazioni che avrebbero devoluto alle autorità di Roma: l’istruttoria degli stessi non si limita ai fatti che riguardano solo l’ortodossia rispetto alla condotta dell’inquisito ma più in generale al suo atteggiamento verso le autorità romane di cui il tributo a Cesare (Lc., 20, 20b) ne risulta l’espressione più eloquente. È di tutta evidenza che la missione sinedrile abbia la prima funzione di ammonire l’indagato circa il suo comportamento eterodosso così come prescriveva la procedura ebraica con valore formale nel voler preludere al preliminare esperimento della successiva azione penale.

    Se così non fosse stato il Collegio poteva ingenerare il dubbio che i capi della Nazione avessero davvero riconosciuto il Nazareno come il Cristo, ragion per cui ben si esprime Caifa in Gv., 11, 50 quando chiarisce che sia meglio che un uomo solo muoia per la salvezza di tutto il popolo anziché tutta la Nazione perisca. Non si tratta di informali conciliaboli ma di riunioni propriamente crismatiche: il Sinedrio non complotta ma delibera, emette una precisa ordinanza cautelare bandita per tutto Israele attraverso l’annuncio alla folla e dietro l’indicazione di una ricompensa (Talmud di Babilonia - Sanhedrin 43a).

    L’arresto di Gesù di Nazareth è un’iniziativa esclusiva delle autorità ebraiche di cui il potere rientra tra le loro competenze esercitate per istruire un processo meditato da tempo e devoluto per la decisione alle autorità romane: né poteva essere diversamente come si esprime lapidariamente Giovanni in 18,31b di fronte alla domanda del Procuratore sul perché i sinedriti non condannassero il prevenuto secondo la propria legge, essi non possono che rispondere: a noi non è concesso dare la morte a nessuno.


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