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L'immagine del potere nell'egitto tolemaico: una revisione critica dell'iconografia di cleopatra vii philopator

  • Autores: Silvio Strano
  • Directores de la Tesis: José Luis Menéndez Varela (dir. tes.), Josep Cervelló Autuori (codir. tes.)
  • Lectura: En la Universitat Autònoma de Barcelona ( España ) en 2011
  • Idioma: español
  • Tribunal Calificador de la Tesis: Antonio Loprieno (presid.), Ignacio Borja Antela Bernárdez (secret.), Giuseppina Capriotti Vittozzi (voc.)
  • Materias:
  • Texto completo no disponible (Saber más ...)
  • Resumen
    • Verso la fine del 1875, il fortunoso cedimento del terreno durante gli scavi del sistema fognario di via Foscolo in Roma, nell'area dei cosiddetti horti Lamiani, riconsegnò alla storia una magnifica collezione di capolavori della scultura ellenistica e romana: fra essi un nudo di donna da allora consegnato all'opinione pubblica con il titolo oggi discusso di Venere Esquilina.

      L'opera, pubblicata per la prima volta da Carlo Ludovico Visconti, che assegnò al monumento una duratura didascalia, fu catalogata dalla successiva letteratura archeologica quale Afrodite Anadyomene. Fu lo storico e linguista Licinio Glori, alla metà del secolo scorso, mediante il cogente confronto con le effigi di Cleopatra VII restituite dai coni monetali e dalla testa dei Musei Vaticani - già brillantemente identificata nel 1933 da Ludwig Curtius come il ritratto dell'ultima regina tolemaica eseguito da uno scultore al servizio di Cesare e allora collocata su un corpo non pertinente di sacerdotessa della Sala a Croce Greca del Museo Pio Clementino - a fare per primo il nome di Cleopatra VII Philopator. Analizzando inoltre attentamente il dato anatomico dell'esemplare dell'Esquilino lo studioso riconobbe nella lieve deformazione del ventre i segni di una recente maternità e nelle caviglie le giunture forti di una donna mediterranea, poco attinenti alla divina rappresentazione. Identica l'acconciatura a melone della donna effigiata, caratterizzata da otto bande scriminate di capelli raccolte sulla nuca in uno chignon e da dieci boccoli a coronamento della fronte che, a prima vista, rammentano il delicato motivo dell'arriccio sulla fronte restituito dagli altri ritratti della sovrana. L'identificazione non fu tuttavia accolta dal mondo accademico e scientifico poiché mancava ancora all'appello il confronto decisivo con l'unica testimonianza iconografia della plastica a tutto tondo completa di naso: il ritratto della sovrana già in collezione privata, acquistato soltanto nel 1976 dagli Staatliche Museen zu Berlin e, pertanto, fino ad allora sconosciuto. Completamente trascurati, i dettagli della scultura posti a decorazione del sostegno, costituito da un vaso in forma di alábastron e ornato da un cobra e dalle foglie di papiro - palese allusione all'ambiente nilotico - furono banalmente interpretati come espressione di una moda egittizzante, e privati del loro indiscusso valore politico-simbolico-religioso. Il nudo fu pertanto interpretato quale rappresentazione della dea greca dell'amore appena uscita dall'acqua collegata, attraverso i dettagli della decorazione del sostegno e dai particolari calzari da essa indossati, alla più celebre divinità femminile del pantheon egizio: la dea Iside.

      Fu Paolo Moreno, nel 1994, a riproporre l'identificazione del simulacro - avanzata in tempi non sospetti da Glori - quale immagine divinizzata dell'ultima regina tolemaica. Analizzando attentamente i ritratti di Berlino, dei Musei Vaticani e di Cherchel - quest'ultimo però ormai ampiamente escluso a favore dell'identificazione con Cleopatra Selene - e, non ultimo, citando nuovamente le effigi della sovrana sui coni monetali, lo studioso riconobbe nel volto della donna le puntuali caratteristiche fisionomiche della più celebre regina tolemaica. La coincidenza del dato fisionomico, permise pertanto di trascendere la divina rappresentazione della dea Afrodite al bagno, evidenziando l'umana personalizzazione del volto e la manifesta resa di una dimensione psicologica aliena alla sfera divina. L'analisi stilistica dell'opera permise dunque di riconoscere una creazione artistica eclettica che, partendo dalla testa in stile severo rievoca, procedendo via via verso i piedi della figura, i canoni dell'arte plastica di età ellenistica, conferendo alle singole parti del corpo una evidente diversità, secondo una tendenza stilistica entrata in voga in Roma a partire dalla metà del I secolo a.C. e che trovò in Pasitele il suo indiscusso caposcuola. Il confronto con l'Atleta Albani, opera di Stefano, e con i gruppi scultorei ascrivibili alla scuola del più illustre discepolo di Pasitele, permisero di riconoscere nello scultore l'artefice più attendibile dell'archetipo. La rivoluzionaria identificazione di Glori e di Moreno, fu accolta in seguito da Giovanni Traversari e da Bernard Andreae. L'analisi del dato stilistico permise di riconoscere nell'esemplare dei Musei Capitolini, una creazione di età claudia, quale replica dell'originale commissionato dal dittatore per il tempio di Venere Genitrice.

      Pur nel convalidare la controversa identificazione, i risultati della nostra indagine, hanno consentito tuttavia di giungere a conclusioni diverse relative alla datazione, alla committenza e, non ultimo, di individuare il luogo dell'originaria ubicazione del simulacro. Oltre a suffragare - mediante il confronto con le effigi monetali e con i ritratti dei Musei Vaticani e di Berlino e, da ultimo, con il ritratto della cosiddetta Cleopatra Nahman (Londra -Collezione Privata Europea) da noi puntualmente riproposto - l'identificazione dell'opera quale immagine divinizzata dell'ultima regina tolemaica, qui effigiata quale Iside-Afrodite, il campo dell'informazione si arricchisce ora di elementi di non trascurabile valore. L'attenta valutazione del dato storico-antropologico - da noi utilizzato quale imprescindibile condicio sine qua non, nel tentativo di far maggiore chiarezza sulle motivazioni politico-religiose sottese alla progressiva assimilazione dei dinasti tolemaici e, ai fini della nostra analisi, dell'ultima sovrana alessandrina, alle divinità del pantheon greco-egizio - la puntuale analisi dei dettagli della scultura, ora riqualificati e rivestiti dell'indiscusso valore politico, simbolico e religioso ad essi sotteso e, non ultimo, l'attenta valutazione del dato topografico emerso dagli scavi della fine del XIX secolo nell'area dei cosiddetti horti Lamiani e finora trascurato, ci hanno permesso, di rialzare -sia pure di poco -la datazione dell'opera, di individuare, con ampio margine di sicurezza, nell'imperatore Caligola il probabile committente e, in ultima istanza, di identificare il luogo della sua originaria ubicazione nel cosiddetto Isium Metellinum, un tempio egizio privato cioè, i cui resti furono individuati in prossimità dell'antica via Labicana che a settentrione delimitava appunto gli horti Lamiani.

      La Cleopatra dell'Esquilino ci ha inoltre fornito l'occasione ed è stata per noi determinante per l'identificazione e la datazione di una scultura acefala in stile egizio rinvenuta di recente nei fondali di Thonis-Heraklion presso Canopo ed ospitata nella Grande Biblioteca di Alessandria: J. Yoyotte propone per la scultura, su basi a nostro avviso non sufficientemente documentate e piuttosto fragili, l'identificazione con Arsinoe II Philadelphos.

      L'opera, resa nota nel 2000 da Frank Goddio, fu esposta per la prima volta a Berlino nel 2006 in occasione di una mostra itinerante da titolo Versunkene Schätze. Archäologische Entdeckungen unter Wasser, successivamente allestita nella capitale francese e, più di recente - (7 febbraio - 31 maggio 2009) - ospitata alle Scuderie juvarriane della Reggia di Venaria all'interno della medesima esposizione dal titolo italiano Egitto, Tesori Sommersi. Il monumento, che già ad una prima osservazione si autentica come capolavoro assoluto della statuaria egizia di epoca tolemaica, condivide con la replica capitolina un'inequivocabile analogia anatomica che, a nostro avviso, in aggiunta all'attenta valutazione delle caratteristiche iconografiche e stilistiche, oltre a proporre un chiaro indizio di datazione, fornisce l'elemento risolutivo ai fini dell'identificazione del personaggio effigiato. Le difficoltà infatti derivanti dall'assenza della testa e della base della scultura, che avrebbero indubbiamente facilitato la lettura del monumento, vengono superate, ad un'attenta osservazione, dall'analisi della muscolatura della regione addominale che, come nel simulacro romano della sovrana effigiata quale Iside-Afrodite, presenta il medesimo andamento circolare evidenziato dalla doppia piega sul ventre, e privo di confronti all'interno della produzione statuaria regale tolemaica in stile egizio relativa alle regine: i numerosi esempi presi a modello, analizzati criticamente nel catalogo e riprodotti puntualmente nelle tavole a conclusione del volume, chiariscono invero, in modo inequivocabile, le evidenti dissimilarità 'formali' e/o concettuali in relazione al capolavoro alessandrino - sapientemente reso dall'artista nel duro granito nero egiziano - che si configura pertanto come un unicum all'interno del più ampio contesto di riferimento. Nel nostro caso, salta subito agli occhi l'assenza del pilastro dorsale, elemento distintivo di tutta la statuaria egizia e, segnatamente, nella sua versione anepigrafa, della statuaria muliebre, fatta eccezione unicamente per una statua di Arsinoe II eretta postuma del Metropolitan Museum of Art di New York, che reca un'iscrizione in geroglifici.

      Assieme alle caratteristiche stilistiche dell'opera e alla valutazione delle cogenti similitudini con la Cleopatra divinizzata dell'Esquilino, l'assenza del pilastro dorsale, palesando una inequivoca 'contaminazione' alla 'maniera' greca, rappresenta per noi un ulteriore indizio di datazione. Di fatti, escludendo in modo pressoché certo una datazione alta del monumento - che per le caratteristiche sopra elencate consideriamo del tutto inverosimile - datiamo la scultura alla seconda metà del I sec. a.C., ed in virtù di ciò, rafforziamo la nostra identificazione.

      Come nell'opera romana, il singolare dato anatomico, l'evidente deformazione del ventre cioè, tradisce i segni di una recente maternità e si inserisce, anche in questo caso, all'interno di un preciso disegno politico-propagandistico dell'ultima sovrana alessandrina, atto a 'legittimare' la successione al trono egiziano del figlio avuto da Cesare. Opportune valutazioni ci hanno indotto a vedere nell'archetipo capitolino il terminus post quem per la datazione dell'esemplare in stile egizio da Canopo, che in esso pare aver trovato il suo immediato modello occidentale. Siamo qui di fronte dunque ad una nuova fusione sincretistica che, introducendo un elemento affatto innovativo all'interno della narrazione figurativa in stile egizio, operando dall'interno una sottile quanto raffinata innovazione e 'contaminazione' della tradizione iconografica di derivazione faraonica, ritrae Cleopatra VII quale Iside-Afrodite in seguito al suo rientro in Egitto - avvenuto nel 44 a.C. - dalla temporanea residenza romana.

      Partendo dalla rilettura critica dei documenti a nostra disposizione, ed approfondendo il discorso relativo alla deificazione dei sovrani macedoni in territorio egiziano, sottesa alla più che mai urgente necessità di legittimazione dei nuovi dinasti stranieri, nel secondo capitolo del volume abbiamo cercato di individuare e decifrare le profonde ragioni politiche che costituirono il motore dell'agire dei Tolemei in relazione al complesso apparato amministrativo, religioso, cosmogonico e mitologico consolidato da millenni di storia faraonica, e che i nuovi sovrani d'Egitto, non poterono in alcun modo né ignorare né sottovalutare: occorreva dunque innanzitutto incontrare il consenso della casta sacerdotale indigena. Il potente motore politico-propagandistico trovò, ancora una volta, nella sua 'traduzione' iconografica e monumentale la principale espressione e l'immediato veicolo di trasmissione. Pertanto, in sintonia con l'argomento principe del volume, la nostra attenzione si è concentrata, fondamentalmente, sulla deificazione delle regine macedoni e, segnatamente, sulla copiosa produzione iconografica che ne tramanda le caratteristiche fondamentali e che convergerà in ultimo, con le dovute varianti, nelle raffigurazioni dell'ultima sovrana alessandrina.

      A partire infatti da Arsinoe II Philadelphos, le regine tolemaiche - fatta salva qualche rara eccezione - furono elevate agli onori divini. Arsinoe II, morta nel 270 a.C., affiancò lo sposo e fratello ancora vivo, nelle raffigurazioni statuarie di culto e nei rilievi templari: entrambi furono venerati quali theoi adelphoi. Allo stato attuale della ricerca tuttavia, non si conosce alcun rilievo templare di epoca tarda - l'epoca dei re Saiti o di Nectanebo - con raffigurazioni di sovrane accanto ai faraoni. L'immediato modello archetipico di riferimento, quello che in termini semiotici definiremmo il 'testo' primario modellizzante, va rintracciato pertanto nei rari esempi delle epoche precedenti, in cui le regine vengono però effigiate in vesti di offerenti. Sebbene questi esempi rappresentino il punto di partenza per la 'narrazione' figurativa tolemaica, solo con l'avvento dei Lagidi e, come evidenziato, a partire da Arsinoe II, viene inaugurata la pratica di collocare la statua della regina defunta anche nei templi egizi accanto alla divinità locale, secondo una prassi seguita poi dai Cesari negli appositi santuari loro dedicati (i caesarea). Relativamente ad Arsinoe II, individuiamo nella presenza di alcuni attributi, basti qui citare, a titolo esemplificativo, la presenza dello scettro/giglio, un diretto legame con l'iconografia delle regine del Nuovo Regno, soprattutto di ambiente tebano, che qualificherà anche le sovrane (spose divine) delle epoche più tarde. Nella titolatura ufficiale tramandata da varie iscrizioni templari, la regina viene qualificata come 'figlia di Amon' (zat 'Imn) e/o quale 'sposa' del dio (hmt-ntr). «[...] Diversi sono gli aspetti del protocollo e dell'iconografia della sovrana che fanno infatti riferimento alle più antiche 'spose divine' e, nella rielaborazione dell'abito pieghettato, vengono citate esplicitamente le regine del Nuovo Regno»: (CAPRIOTTI VITTOZZI 1998: 58). Tanto l'abbigliamento, quanto il titolo 'Sposa del dio', qualificano la regina Nefertari, sposa di Ramesse II. Il medesimo tipo iconografico era stato impiegato nelle raffigurazioni della regina divinizzata Ahmose-Nefertari, 'Sposa divina', agli inizi della XVIII Dinastia e la cui immagine dovette esercitare una certa importanza, come documentato dal rilievo della parete sud del tempio di Karnak, che ritrae Ramesse II in un atto rituale al cospetto di Ahmose-Nefertari effigiata in abito pieghettato e con uno scettro/giglio in mano. Il ricordo di Ahmose-Nefertari dovette verosimilmente influenzare gli ambienti sacerdotali responsabili della elaborazione dell'immagine e del culto dinastico della Filadelfo. Questo genere iconografico fu comunque ripreso e reinterpretato durante tutta l'epoca tolemaica, la cui nota distintiva, all'interno dell'ambito iconografico di matrice egizia, fu quella appunto di riutilizzare - rafforzandone il 'codice' e adattandolo alle nuove esigenze dinastiche - i modelli del passato.

      L'apoteosi di Arsinoe II si diffuse rapidamente in tutto l'impero e il suo culto si estese a macchia d'olio, come confermano inoltre le numerose testimonianze finanziarie e fiscali, cerimoniali e ufficiali oltre che iconografiche, rinvenute ad Alessandria, nel Fayum, nel templi e nei nomoi e, non ultimo, nei territori stranieri soggetti alla giurisdizione lagide. Molte città assunsero il nome della sovrana e numerosi furono i monumenti a lei dedicati. La particolare attenzione rivolta dalla regina ai marinai e alla navigazione, qualificandola come 'Signora dei mari', agevolò infine la sua identificazione con Afrodite, la dea che, fra i tanti appellativi, porta quello di Pontia, ovverosia protettrice dei naviganti. La particolare venerazione dei naviganti egizi per Arsinoe, favorì altresì l'assimilazione di Afrodite ad Hathor, la dea egizia di tutte le donne, dell'eros e della fertilità, che a partire dall'epoca faraonica viene accostata ad Iside, alla quale concede i suoi attributi fondamentali - (il disco solare e le corna bovine) - nonché la divinità protettrice delle navigazioni verso Biblos e delle spedizioni lungo il Mar Rosso.

      Faraoni all'interno dei confini egiziani, sovrani ellenistici al di fuori della Terra del Nilo, la divinizzazione dei Tolemei fu vincolata pertanto da una parte al rituale di culto indigeno, dall'altra al culto dinastico di derivazione greco-ellenistica. Questo 'bilinguismo' e sincretismo religioso furono indistintamente applicati anche alle regine. Una copiosa quantità di iscrizioni e testimonianze archeologiche e iconografiche permette di ricostruire con estrema precisione il complesso e articolato apparato religioso e cultuale sotteso alla strategia politica della nuova dinastia. Storici e letterati si fecero interpreti e divulgatori del disegno politico-religiso lagide. Già durante il regno di Tolomeo I Soter, Ecateo di Abdera - trasferitosi ad Alessandria intorno al 320 a.C. e autore di una storia dell'Egitto in quattro volumi andata perduta e della quale tuttavia si tramandano alcuni frammenti nella descrizione della monarchia dell'antico Egitto di Diodoro Siculo - non esitò a far ricorso alla tradizione leggendaria, secondo la quale la Grecia ed altre vaste aree del mondo allora conosciuto sarebbero state colonizzate dagli Egizi. L'ascesa al trono egiziano di Tolomeo I, avrebbe così incontrato piena legittimazione in una sorta di 'ritorno alle origini', laddove al medesimo tempo alla Terra del Nilo veniva riconosciuta una posizione egemone, in quanto culla della civiltà. Fra i letterati ricordiamo Callimaco, responsabile tra l'atro della catalogazione della Biblioteca di Alessandria, o Posidippo di Pella, autore di due epigrammi in onore di Callicrate, il costruttore dello Zephirion, un piccolo tempio cioè dedicato ad Arsinoe II. In virtù della particolare attenzione rivolta dalla regina - ancora in vita - ai marinai e alla navigazione, la sovrana divinizzata fu invero anche chiamata Zephiritis «colei dello Zefiro», ad indicare un vento calmo e regolare, favorevole alla buona navigazione.

      In riferimento al culto delle sovrane macedoni, l'aspetto più evidente del sincretismo religioso promosso dai nuovi dinasti fu, senza alcun dubbio, l'accostamento Iside-Afrodite. Agevolata come rilevato dalla intermediazione di Hathor e largamente diffusa già dagli albori dell'epoca tolemaica, la 'fusione' tra le due divinità incontrerà dunque una puntuale traduzione iconografica. L'iconografia di Iside-Afrodite, giungerà pressoché inalterata nella sostanza, sebbene variamente modificata, reinterpretata e adattata al nuovo linguaggio stilistico-culturale, fino all'epoca romana, durante la quale assistiamo ad un'ampia diffusione di statuette e terrecotte caratterizzate dalla nudità totale o quasi della figura, derivata dalle raffigurazioni della divinità olimpica.

      Tuttavia, al culto ufficiale dei dinasti macedoni, si affiancherà ora la venerazione e il culto popolare. L'evidenza archeologica tramanda infatti numerosi santuari di carattere privato e una ricca produzione di oinochoai in faïence con scene a rilievo che ritraggono la sovrana - identificata in alcuni casi da un'iscrizione - nell'atto di reggere tra le braccia una cornucopia, come una dea, e in prossimità di un altare. Questi manufatti documentano la diffusione, la ricezione e, segnatamente, la sopravvivenza del culto delle regine tolemaiche, all'interno del più ampio strato sociale.

      La stessa identificazione dei vari sovrani che dagli albori della dinastia lagide si succedettero fino all'avvento di Roma nel governo del Paese, fu agevolata dai nomi di culto assegnati a ciascun re e a ciascuna regina della dinastia per la propagazione del protocollo religioso e del rispettivo programma politico. Laddove la numerazione che accompagna i nomi dei re e delle regine macedoni in territorio egiziano corrisponde ad una convenzione di 'comodo' utilizzata dalla storiografia moderna, l'attribuzione ad ogni sovrano di un preciso nome di culto, seguendo una prassi di chiara impronta ellenica, utilizzata anche in Siria dalla dinastia Seleucide, consentì invero ai sudditi di distinguere i nuovi sovrani, caratterizzati dallo stesso nome dinastico: Tolomeo per i componenti maschili della dinastia, Berenice, Arsinoe e Cleopatra per le regine.

      Il singolare 'bilinguismo' culturale dei monarchi macedoni investì anche il reclutamento della casta sacerdotale. Una diversa modalità di selezione, greca da una parte, egizia dall'altra, fu impiegata per i sacerdoti e le sacerdotesse preposte al culto dei sovrani: nell'area di Alessandria si rileva la quasi totale presenza di sacerdoti di origine greco-macedone, scelti all'interno dei ranghi più elevati delle famiglie alessandrine. Costoro portavano un titolo che ne qualificava il protocollo cultuale di appartenenza: kanephoros -ad esempio - 'portatrice del cesto dorato' di Arsinoe II Philadelphos, e atlophoros, 'portatrice del prezzo della vittoria' di Berenice II Evergetes. Testimonianze in greco e demotico rinvenute in tutto l'Egitto, ne tramandano i nomi, almeno per quel che riguarda la sola Alessandria, all'incirca dal 285 fino al 100 a.C., fino alla definitiva scomparsa di questa istituzione: Cleopatra III, Tolomeo IX Soter II e Tolomeo X Alessandro I, furono infatti essi stessi sacerdoti del proprio culto. A partire dall'anno 84/83 a.C. non si ha invero più alcuna documentazione dei nomi dei sacerdoti e, per quel che riguarda il culto delle singole regine, i loro nomi si tramandano unicamente nel caso di Arsinoe II. Il frequente uso nei documenti ufficiali dei nomi dei sacerdoti alessandrini e, solo occasionalmente di quelli egizi collegati al culto dei sovrani, rappresenta per noi un fondamentale elemento di datazione.

      Nel caso di Arsinoe II, la popolarità e la diffusione del culto della regina divinizzata ci sono tramandati oltre che dai numerosi toponimi (molte città assunsero infatti il nome della sovrana), dalla cospicua quantità di monumenti privati rinvenuti al di fuori dell'Egitto. Allo stesso modo, ritroviamo in molti toponimi i nomi Berenice e Cleopatra che, accanto al nome dinastico dei componenti maschili della dinastia, caratterizzano spesso anche i nomi propri utilizzati dagli egizi in ossequio alla famiglia reale.

      Scarse sono tuttavia, relativamente all'ultima regina tolemaica, le testimonianze - anteriori e posteriori alla sua morte - che ne tramandano la venerazione: la regina non sfuggì alla severa damnatio memoriae di Ottaviano. Fra esse particolarmente degno di nota un graffito in demotico databile al 373 d.C., opera di Petesenufe, uno scriba di Iside, che riferisce del restauro e della doratura di una statua della regina.

      In relazione a quest'ultima e, segnatamente, alla statuaria a lei dedicata, i risultati della nostra indagine, sebbene da una parte abbiano portato a convalidare, relativamente alla produzione iconografica ellenistico-romana i ritratti di Berlino, del Vaticano e le più recenti acquisizioni alla scienza archeologica relative all'ultima sovrana alessandrina, la controversa identificazione della Cleopatra capitolina cioè - per la quale, come evidenziato, giungiamo tuttavia a conclusioni diverse dagli studiosi che ne propongono l'identificazione relative alla datazione, individuando altresì per la prima volta il luogo della sua originaria ubicazione, nonché la probabile committenza - e, infine, la cosiddetta Cleopatra Nahman, ancor più cauto è stato il nostro approccio nella esegesi dei documenti iconografici in stile egizio. L'attenta analisi della statuaria regale tolemaica muliebre di derivazione faraonica, in virtù dell'estrema complessità della narrazione figurativa, aggravata all'occorrenza dalla frammentarietà dell'evidenza archeologica e/o dall'assenza di iscrizioni, ha ulteriormente appesantito il nostro lavoro, pur non giungendo tuttavia a comprometterne i risultati e la decodificazione complessivi. Al di là di una valutazione meramente stilistica e/o iconografica degli esempi presi a modello, in alcuni casi, l'analisi semantica e storica del triplo ureo presente sul capo di alcune regine tolemaiche da noi puntualmente esaminate nel catalogo dei monumenti, ci ha fornito l'occasione per approfondirne i contenuti e, in definitiva, per confutare alcune identificazioni proposte.

      Partendo dalla ormai sostanzialmente accolta dagli studiosi associazione del doppio ureo alla regalità sulle Due Terre, l'Alto e il Basso Egitto cioè, presente in rari casi ad ornamento della fronte dei re egiziani e più spesso delle regine a partire dalla XVIII Dinastia, e successivamente ripreso dai re nubiani e da questi però utilizzato con una significativa variazione semantica nella volontà di sottolineare la propria doppia regalità sull'Egitto e su Kush, il triplo ureo, come rileva G. Capriotti Vittozzi (1995: 429-430) «[...] trovandosi sulla fronte di regine, sembra non essere legato ad una regalità acquisita per conquista, secondo quanto già proposto in riferimento alla XXV Dinastia, perché lo troveremmo anche sulle statue dei re». In riferimento al busto di regina tolemaica al Museo per le Antichità Egizie di Torino (cfr. Cat. 28, Tav. XXXV, figg. 77-78 del presente contributo), la studiosa prosegue: «Nella ricerca di una soluzione a questo problema, può essere proprio l'attribuzione della statua torinese a Berenice II a offrire delle possibili risposte: questa regina, erede di Magas di Cirene la quale forse esercitò il potere regale sulla Cirenaica da sola o associata a suo padre, portò comunque in dote questa regalità quando divenne regina d'Egitto. E' possibile che un fatto tanto importante per la politica lagide diventasse anch'esso spunto di propaganda e fosse quindi proposto alla popolazione nelle statue di culto dedicate a questa regina e attraverso i mezzi della iconografia tradizionale».

      In quest'ottica dunque, ci sono buone ragioni per affermare che il triplo ureo, trovandosi unicamente sul capo di alcune regine tolemaiche, simboleggi la regalità oltre che sulle Due Terre, sull'Alto e il Basso Egitto cioè, su un territorio alieno ai confini egiziani. Lungi dal rappresentare l'elemento distintivo di Cleopatra VII, per differenziare le statue della regina da quelle di Arsinoe II, come vorrebbe S. Ahston, che tuttavia manca di indicare con esattezza gli esemplari che a suo dire presenterebbero delle cogenti analogie iconografiche tra le due sovrane, foriere - in assenza di un elemento distintivo e qualificante (quale il triplo ureo appunto) - di confusioni identificative, in ragione dei dati fin qui brevemente esposti, la tripla insegna regale pare piuttosto un elemento condiviso da più regine macedoni. Eviteremo qui di soffermarci sull'identificazione del busto torinese, del quale abbiamo ampiamente riferito nel corso del volume. Basterà qui semplicemente rilevare il fatto che, le uniche tre sovrane a regnare oltre che sull'Egitto, sulla Cirenaica, sulla Celesiria e sull'antico regno Seleucide, furono rispettivamente Berenice II, Cleopatra I e Cleopatra VII.

      Questa constatazione, in aggiunta alla valutazione formale-stilistca e all'osservazione del singolare dato fisionomico che, sebbene 'compromesso' nella sua espressione dal linguaggio figurativo puramente egizio estraneo alla concezione ritrattistica di tradizione classica, tradisce la presenza di segni individuali, ci ha portato a confutare in via pressoché assoluta l'identificazione di alcune statue con l'ultima sovrana alessandrina. Suggerita, a nostro avviso, più che da un'approfondita e rigorosa analisi scientifica - che al contrario, si rivela estremamente fragile nei contenuti - probabilmente da urgenze espositive, l'identificazione delle statue di regine tolemaiche dell'Ermitage di San Pietroburgo (Tav. XL, figg. 89-90), del Rosicrucian Museum di San José (California) (Tav. XLI, figg. 91-92) e la statuetta di piccole dimensioni del Metropolitan Museum of Art di New York (Tav. XX, fig. 36) sembrano al contrario ben lontane dal poter essere identificate quali immagini di Cleopatra VII. L'unico dubbio al riguardo rimane per la testina di regina tolemaica con triplo ureo di piccole dimensioni in stile egizio del Brooklyn Museun of Art di New York (Tav. XIX, fig. 35) che, a differenza degli esempi or ora citati, presenta a nostro avviso un incontrovertibile dato anatomico, ereditato dall'ultima delle Cleopatre dal capostipite della dinastia: il prognatismo che contraddistingue tutte le raffigurazioni della sovrana a noi note. Per tale motivo proponiamo per quest'ultimo monumento una possibile identificazione con l'ultima sovrana alessandrina, in attesa che la ricerca scientifica apporti nuovi contributi.

      Pertanto, i risultati della nostra indagine, relativamente alla figurazione egizia di Cleopatra VII, oltre al ben noto rilievo della parete sud del Tempio di Hathor a Dendera, che ritrae la sovrana assieme al figlio Tolomeo XV Cesarione (Tav. XXIV, fig. 43), alla stele custodita al Départament des Antiquités Egyptiennes del Museo del Louvre (Tav. XXIII, fig. 42), che nel registro superiore ritrae la sovrana nel tipico aspetto di un faraone al cospetto di Iside assisa e intenta ad allattare il figlio Horus, o ancora il rilievo del mammisi del Tempio di Montu ad Armant raffigurante la mitica nascita di Tolomeo XV Cesarione da Cleopatra-Iside, al cospetto di Amun-Re e della dea Nechbet, che si conserva tuttavia solo in un disegno ricostruttivo di Lepsius (Tav. XXVII, fig. 46), ci hanno portato ad individuare, unicamente nella statua acefala dai fondali di Thonis-Heraklion presso canopo (supra), l'immagine divinizzata della regina. Ad essa potremmo aggiungere probabilmente una corona regale con iscrizione da Coptos custodita al Petrie Museum of Egyptian Archaeology, University College di Londra (cfr. Cat. 9, Tav. XXII, figg. 40-41 del presente contributo). Il frammento in oggetto, relativo al coronamento di una statua oggi purtroppo perduta, è caratterizzato dal consueto disco solare fra le corna bovine, arricchite da due alte piume: al centro si dispongono tre uraei. La titolatura riportata dall'iscrizione del pilastro dorsale, «figlia di re, sorella di re, grande moglie regale» che era stata anche di Arsinoe II, è invero perfettamente applicabile all'ultima dei Tolemei. Se da una parte la presenza della tripla insegna regale, e dunque la foggia della corona, nettamente distinta dalla solita indossata dalla Filadelfo, raffigurata senza cobra sulla corona o, come in un esempio proveniente dal tempio di Horus ad Edfu, con il doppio cobra, corrispondente al doppio ureo sulle statue, esclude in prima battuta l'identificazione con questa sovrana, nonostante il singolare elemento contraddistinse, come abbiamo visto, le immagini di Berenice II prima e di Cleopatra I poi, l'iscrizione del pilastro dorsale non può che escludere categoricamente l'appartenenza del copricapo regale anche a queste due regine.

      Relativamente dunque alle raffigurazioni di Cleopatra VII tanto in stile ellenistico-romano (eccezion fatta per i coni monetali e per le rappresentazioni sulle lucerne di epoca romana che ritraggono la sovrana in modo a dir poco dissacrante), quanto in stile egizio, l'analisi fin qui condotta permette dunque di procedere alla seguente identificazione: a) Raffigurazioni di Cleopatra VII in stile greco-romano: 1) Ritratto di Cleopatra di Berlino (Staatliche Museen zu Berlin. Antikensammlung); 2) Ritratto di Cleopatra dei Musei Vaticani (Museo Gregoriano Profano); 3) Ritratto di Cleopatra cosiddetta Nahman (Londra, Collezione Privata Europea); 4) Statua di Cleopatra quale Iside-Afrodite, ovvero la Cleopatra dell'Esquilino (Roma, Palazzo dei Conservatori, Musei Capitolini); b) Raffigurazioni di Cleopatra VII in stile egizio: 1) Rilievo del Tempio di Hathor a Dendera; 2) Stele di Cleopatra VII al cospetto di Iside lactans (Paris, Musée du Louvre); 3) Rilievo della miracolosa nascita di Tolomeo XV Cesarione da Cleopatra-Iside al cospetto di Amun-Re e della dea Nechbet, dal mammisi del Tempio di Montu ad Armant; 4) Testina di Cleopatra VII (?) (New York, Brooklyn Museum of Arts); 5) Corona regale con iscrizione da Coptos (London, Petrie Museum of Egyptian Archaeology, University College London); 6) Statua acefala di Cleopatra VII dai fondali di Thonis-Heraklion presso Canopo (Alessandria, Grande Biblioteca).

      Laddove fin qui, pur facendo ricorso all'ausilio di altre discipline affini e complementari l'applicazione della tradizionale metodologia archeologica e storico-artistica si è rivelata ancora una volta adeguata all'analisi dei manufatti archeologici oggetto della nostra indagine e del più ampio contesto culturale di riferimento, l'estrema complessità dell'argomento affrontato nel quarto capitolo del volume, rivelandone i limiti intrinseci nella sua possibilità di applicazione indiscriminata, ha sollecitato la ricerca prima e l'impiego poi, di un differente approccio metodologico. Se da una parte la narrazione figurativa lagide può, in linea generale, essere distinta come abbiamo visto in due grandi 'blocchi'- egizio da una parte, ellenistico dall'altra - a loro volta divisibili in quelli che, per comodità espositiva, abbiamo definito 'codici' e 'sottocodici', in relazione alla 'purezza' e/o alla 'contaminazione' compositiva nell'una o nell'altra direzione, è pur vero che esistono casi in cui, questa classificazione schematica, traducendosi dallo 'stereotipo' o 'figura forte' della narrazione figurativa codificata, già evoluta e mediata all'interno del più ampio contesto iconografico di riferimento, complicandosi ulteriormente, non può più essere applicata. Di fatti, pur mantenendo nella 'forma' specifiche connotazioni culturali, l'informazione primaria, per poter esser letta e decodificata, necessita di ulteriori strumenti di indagine, in grado di penetrare all'interno e dall'interno il 'messaggio' poliglotta e sincretico tolemaico, la cui chiave di lettura, lungi dall'essere unidirezionale, dovrà ora necessariamente essere plurima.

      In quest'ottica, prendendo a modello quello che senza alcun dubbio rappresenta il manufatto archeologico-artistico più controverso ed enigmatico della figurazione tolemaica, quale risulta dalla celebre phiale in sardonice meglio nota come Tazza Farnese, la nostra lettura non ha potuto fare a meno di sconfinare nell'analisi semiotica del manufatto in oggetto, utilizzando le nuove possibilità euristiche e di giudizio critico, nel tentativo di offrire, sia al discente, sia in questo caso all'egittologo da una parte e allo storico dell'arte ellenistica dall'altra, un valido strumento di lavoro. A partire infatti dagli anni '70 del secolo scorso, grazie all'intensa attività pioneristica di J. M. Lotman, l'arte figurativa, la 'lingua' figurativa cioè, ha visto l'inclusione nel campo semiotico. L'applicazione della nozione di 'testo' all'opera d'arte, sia essa un dipinto o una statua, quale risultato dei più recenti sviluppi della semiotica generale o teoria generale dei segni e della semiotica sistemica slava, con particolare riferimento agli sviluppi apportati alla disciplina dalla scuola di Mosca e Tartu relativi al meccanismo semiotico della cultura e ai 'sistemi modellizzanti' secondari e, vieppiù, le nozioni di 'segno figurativo' di 'lingua figurativa' o di 'testo figurativo', hanno per noi rappresentato un imprescindibile strumento di lavoro costituendo gli strumenti base del nostro approccio.

      Il nostro obiettivo, consapevolmente ambizioso, era quello di decifrare quello che a nostro avviso rappresenta il 'testo figurativo' più ermetico della 'propaganda' lagide, un vero e proprio 'rompicapo' della figurazione tolemaica, elevato ora a paradigma della sua complessa e articolata produzione iconografica. Di contro, nella applicazione inedita del metodo all'interno di un contesto archeologico e segnatamente di natura egittologica, abbiamo inteso fornire alla discipline qui direttamente coinvolte - l'egittologia da una parte, l'archeologia classica dall'altra - un differente spunto di riflessione, costantemente arricchito tuttavia dalla puntuale valutazione del sostrato socio-politico-economico e religioso propagandistico, all'interno del quale la figurazione in oggetto trae origine.

      Muovendo dai concetti di - posizione del parlante' e di 'posizione dell'ascoltatore' perfettamente applicabili all'ambito culturale tolemaico - all'interno del quale ci troviamo costantemente di fronte ad una intersezione di piani e di livelli - il nostro 'testo' figurativo, ci ha fornito lo spunto per una doppia chiave di lettura: esoterica ed essoterica, ovverosia chiusa, ermetica, inaccessibile da una parte, destinata cioè ad un 'osservatore iniziato'; aperta dall'altra.

      Laddove lo studio complessivo della figurazione racchiusa nella celebre phiale, quello che in termini semiotici definiamo testo continuo, cela l'informazione primaria entropica dalla quale la figurazione stessa trae origine, la nostra analisi, rivolgendosi con particolare attenzione al testo frammentario, alla decifrazione cioè dei vari segni iconici polisemici presenti all'interno della narrazione, altrimenti detti simboli discreti, ci ha consentito, operando per gradi, di giungere alla più ampia decodificazione del 'messaggio'/significato altrimenti oscuro che la traduzione iconografica sottende.

      Procedendo pertanto da un'attenta osservazione di entrambe le 'posizioni' (supra), all'interno delle quali ciascun elemento, ciascun 'segno' si esprime e sopravvive come un 'microcosmo' a sé stante ma in diretto collegamento con gli altri, costituendo la base per la sopravvivenza stessa del 'macrocosmo' segnico all'interno del quale si inserisce, i risultati della nostra indagine ci hanno portato a individuare una radice culturale e un messaggio/significato ben più complessi e articolati di quelli che ad una prima osservazione il manufatto potrebbe suggerire.

      Il plurisubstrato culturale e/o linguistico figurativo dal quale la grammatica iconica di epoca tolemaica trae origine e che, fin dalle origini 'parlerà' egiziano e greco, sarà ovverosia caratterizzato da una sorta di bilinguismo le cui componenti si fonderanno a vari livelli, generando un originalissimo sincretismo culturale nell'accezione più ampia del termine, incontrerà, all'interno del 'testo' figurativo in oggetto, la sua più alta espressione, originando invero una sorta di 'lingua franca' dall'alto valore segnico.

      L'alta iconicità del segno, la sua dipendenza dai codici propri della produzione figurativa faraonica da una parte (la sfinge nel nostro caso), ellenistica dall'altra (tutto il resto della figurazione), costituendo il Leitmotiv della 'semantizzazione' del codice figurativo, ci ha fornito lo stimolo necessario per andare oltre. Abbiamo cercato, seguendo le tracce di un paradigma indiziario, di tradurre, decriptare, rendere accessibile ciò che finora è apparso come un 'testo' dal significato oscuro, incomprensibile, riservato a soli pochi iniziati, e che, sebbene variamente studiato e interpretato, è apparso ai più 'mancante' di qualcosa, 'mutilato' nell'analisi del suo più ampio significato, letto solo parzialmente in ragione della sua 'veste' formale che, eccezion fatta per la sfinge collocata sul fondo interno della phiale, si esprime con un vocabolario o, più precisamente, con un alfabeto e/o con un 'segno' grafico/ iconografico di chiara impronta ellenistica.

      Questo alfabeto, questo 'segno' grafico però, lungi dall'esser privo della sua precipua identità culturale, appare, ad una più attenta osservazione e ad un differente livello di esegesi 'posizione del parlante' o chiave di lettura 'esoterica') il necessario 'sistema' segnico di traslitterazione di un 'messaggio'/significato sotteso ad un'informazione primaria entropica, di natura squisitamente egizia.

      Al di là degli aspetti meramente descrittivi della narrazione figurativa, che a volte coincidono con gli studi fin qui condotti, la nostra indagine, cercando di 'penetrare' il valore polisemico intrinseco a ciascun simbolo o segno discreto o testo frammentario che dir si voglia, e procedendo vieppiù ad una lettura del manufatto in chiave egittologica, giunge a risultati diametralmente opposti a quelli fin qui condotti dagli studiosi che a vario titolo si sono occupati del monumento in oggetto.

      Approfondendo gli aspetti cosmogonico-mitologici relativi all'universo culturale egizio e procedendo parallelamente ad una lettura dal di dentro e dal di fuori del sema ora tradotto in 'segno' iconico, i risultati della nostra indagine ci hanno consentito di giungere, fatta salva qualche rara eccezione, a conclusioni del tutto inedite in relazione alla identificazione storica e/o mitologico-religiosa dei personaggi che costituiscono il fulcro della narrazione figurativa.

      Di contro, la lettura incrociata dei dati ricavati, nonché la puntuale individuazione e citazione del dei 'testi primari modellizzanti' che, costituendo l'iconema fulcro ora dell'uno ora dell'altro simbolo discreto o testo frammentario presente all'interno della struttura sintattica della figurazione, ci ha indotto a riconsiderare l'intera questione, individuando innanzitutto, all'interno del codice culturale poliglotta espresso dalla narrazione figurativa, la traduzione iconica del concetto di Maat (ordine, verità e giustizia), tratta dal vocabolario mitologico religioso egiziano ovvero, relativamente alla 'posizione dell'ascoltatore', della ¿unomìa, per dirla in termini greci.

      L'analisi del valore polisemico intrinseco da noi individuato all'interno del segno iconico della sfinge vieppiù, incontrando un preciso archetipo iconografico o testo primario modellizzante che dir si voglia, nei rilievi di epoca tolemaica delle cappelle di Osiri all'interno del Tempio di Hathor a Dendera (Tavv. LIII-LIV, figg. 111-112) e in altre raffigurazioni templari dell'epoca che ritraggono il dio in una posizione che potremmo qui definire con un termine di nuovo conio 'sfingiforme', ci hanno portato a riconoscere nel 'segno' all'interno della phiale, sul piano mitologico, la raffigurazione del dio che muore e risorge, emblema dell'eterno immutabile e, in definitiva, simbolo di vita eterna. La sfinge pertanto, collocata sul fondo interno della Tazza Farnese, lungi dal poter essere ora identificata sul piano storico con il faraone in carica - qui espresso dal giovane vigoroso e di bell'aspetto collocato in posizione centrale dietro la figura femminile sdraiata, identificato con Horo-Trittolemo appunto e, pertanto, con il sovrano regnante, l'Horo vivente cioè - assurge al suo più alto valore semantico e si traduce, operando una sorta di frattura semica e linguistica dell'iconema originario, nel simbolo della 'regalità' divina.

      Confermando sul piano storico, nel volto della sfinge la felice intuizione di P. Moreno, che vi riconobbe le caratteristiche fisionomiche di Tolomeo VIII Fiscone tramandate dalla testa in diorite nera di Bruxelles (Tav. XLVI, fig. 100, Tav. LII, fig. 107) - dallo studioso però interpretato come il sovrano in carica - e non ultimo nel volto della regina l'immagine di Cleopatra III qui effigiata nelle vesti di Iside- Demetra che rammenta le caratteristiche fisionomiche e iconografiche tramandate dal ritratto della sovrana al Louvre e proveniente da Ermopoli (Tav. XLV, fig. 98), la nostra indagine ha consentito di rintracciare, con ampio margine di sicurezza nel volto dell'Horo-Trittolemo, puntuali analogie fisionomiche con un ritratto di sovrano tolemaico (copia romana da un originale in bronzo alessandrino) proveniente dalla Villa dei Papiri e custodito al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Tav. XLVIII, fig. 104). Escludendo l'identificazione con Tolomeo X Alessandro I in virtù delle notizie sulle caratteristiche fisiche del sovrano ricavate da Ateneo (12, 550 b), secondo il quale il secondogenito del Fiscone e di Cleopatra III avrebbe ereditato dal padre probabilmente ancora in modo più drammatico la caratteristica obesità, proponiamo ora per esclusione, l'identificazione dell'Horo-Trittolemo della Tazza Farnese, con Tolomeo IX Soter II che, alternandosi al fratello, affiancò la madre nel governo del Paese.

      Questo modo di procedere, che ha contraddistinto il nostro approccio nell'affrontare l'argomento ci ha portato a individuare, in ogni 'segno' iconico o simbolo discreto presente all'interno della figurazione una sua precisa identificazione sul piano cosmogonico-religioso.

      Auspichiamo pertanto che la materia trattata e la metodologia da noi applicata possano suscitare l'interesse degli specialisti e aprire il campo a nuovi contributi.

      SUMMARY Towards the end of 1875, while via Foscolo in Rome was being excavated for the new sewerage system, thanks to a fortunate coincidence, in the area known as horti Lamiani a land subsidence brought to light a magnificent collection of fine works of Hellenistic and Roman sculpture, amongst which was a female nude which has since been known as the Esquiline Venus.

      The statue, made known to the public for the first time by Carlo Ludovico Visconti, who gave it the name Aphrodite Anadyomene by which it was catalogued in archaeological literature. However, it was the historian and linguist Licinio Glori, in the middle of the 20th century, who, by comparing it with the figurative representation Cleopatra VII on the coins of that period and with the head in the Vatican Museums, was the first to use the name Cleopatra VII Philopator, previously identified in 1933 by Ludwig Curtius as the portrait of the last Ptolemaic Queen made by a sculptor at Caesar's service and then placed on the body of a priestess in the Room of the Greek Cross in the Pio Clementino Museum. As a matter of fact, this body was in no way related to the head of the Ptolemaic Queen. Moreover, Glori carefully analyzed the body of the Esquiline Venus copy and recognized the slight deformation of the abdomen as signs of recent pregnancy, while its ankles were the typical heavy joints of a Mediterranean woman, and therefore far from the idea of the representation of the divine.

      Female hairstyles seen in the figurative representations of the time are melon-shaped and characterized by eight hair partings gathered into a chignon on the nape as well as ten curls which form a crown on the forehead, reminding one of the delicate curls on the forehead seen in the other portraits of the queen. The identification, however, was not entirely accepted by the academic and scientific world since it still lacked the decisive comparison with the only definitive item of sculptural iconography complete with a nose, that is, the portrait of the queen, part of a private collection, which came into the possession of the Staatliche Museen zu Berlin only in 1976 and, therefore, till then unknown. Completely neglected, the details of the sculpture decorating the base, which consisted in vase in the form of an alábastron and decorated by a cobra and papyrus leaves (clearly a reference to the area of the Nile), were banally interpreted as the expression of Egyptian fashion, and deprived of their doubtless political-symbolic-religious value. Nudity therefore was seen as the representation of the Greek goddess of Love, as she is about to come out of the water or connected, via the decoration details on the base of the sculpture and by the particular items worn, to the most famous goddess of the Egyptian pantheon, Isis.

      It was Paolo Moreno who claimed in 1994 that it was the divine image of the last Ptolemaic Queen, as Glori had suggested in the past. Carefully analyzing the portraits in Berlin, the Vatican Museums and of Cherchel -although it was by now widely excluded that the last one was Cleopatra Selene - as well as the images of the ruler on the coins, he recognized in the face of the woman the main physiognomic characteristics of the famous Ptolemaic Queen. The coincidence of the physiognomic data allowed him, therefore, to go beyond the idea that this was the divine representation of the goddess Aphrodite bathing, instead he highlighted the humanity of the face and the evidence of a psychological dimension which had nothing divine about it.

      The stylistic analysis of the sculpture identified an eclectic artistic creation that evokes, from its head sculpted in the strict style of the period down to its feet, the canons of plastic art of the Hellenistic age, conferring on the single parts of the body an obvious diversity, according to a stylistic tendency in vogue in Rome in the middle of the I century B.C. and which found in Pasiteles its unquestioned master. By comparing it with the Albani Athlete, sculpted by Stefanos, and with the sculptural groups attributed to the school of the most illustrious disciple of Pasiteles, allowed Moreno to recognize the sculptor as the most likely creator of the archetype. The revolutionary identification of Glori and of Moreno was accepted by Giovanni Traversari and Bernard Andreae. Analysis of the stylistic data allowed him to consider the copy of the Capitolini Museums as a creation of the Claudian age, a replica of the original commissioned by the dictator in the temple of Venus Genitrix.

      Although we can confirm the controversial identification, the results of our investigation, however, have led to differing conclusions as to the dating of the work and its owners, and to the possibility of identifying the original location of the statue. Besides confirming, through comparison with images on coins and the portraits in the Vatican Museums and in Berlin and with the portrait of the so-called Cleopatra Nahman (London - European Private Collection) the work as the divine image of the last Ptolemaic Queen, represented instead as Isis-Aphrodite, now we have access to further valuable information.

      Thanks to the careful appraisal of the historico-anthropological data (used here as an unavoidable condicio sine qua non, in the attempt to clarify the political and religious motivations underlying the gradual turning of the Ptolemaic dynasty and of the last Alexandrian queen to the worship of the divinities of the Greek-Egyptian pantheon), the precise analysis of the details of the sculpture, re-qualified and re-assessed in the light of the evident political, symbolic and religious value they possess, and, last but not least, to the careful appraisal of the topographical data which emerged following the excavations in the area of the so-called horti Lamiani at the end of the XIX century and which have been neglected up to now, we have been able to re-consider the dating of the work, to identify Emperor Caligula as probably having commissioned the statue and, ultimately, to identify its original location in the so-called Isium Metellinum, a private Egyptian Temple whose remains were located near the ancient Via Labicana bordering the horti Lamiani in the north. The Cleopatra of Esquiline, moreover, has helped to determine the identification and dating of an Egyptian-style acephalous sculpture recently found on the seabed of Thonis-Heraklion near Canopus, once part of the Great Library of Alexandria: J. Yoyotte suggests that the sculpture can be identified with Arsinoe II Philadelphos, although this is based on rather weak evidence.

      The work, made famous in 2000 by Frank Goddio, was exhibited for the first time in Berlin in 2006 during a travelling exhibition entitled Versunkene Schätze. Archäologische Entdeckungen unter Wasser, and successively staged in the French capital and more recently - (7 February - 31 May 2009) - hosted at the Stables of the Reggia di Venaria under the Italian title: Egitto, Tesori sommersi. The monument, clearly an authentic masterpiece of Egyptian sculpture of the Ptolemaic age, is anatomically similar to the Campidoglio copy, a similarity which, in our opinion, not only gives an obvious clue as to its dating, but is also fundamental in helping us to identify the figure represented.

      As a matter of fact, the difficulties caused by the fact that the head and the base of the sculpture are missing (these elements would have undoubtedly facilitated its study), can be overcome by a careful analysis of the musculature in the abdominal region which, as in the case of the Roman representation of the queen as Isis-Aphrodite, presents the same circular movement, as highlighted by the double fold on the abdomen, for which there are no examples in the production of Ptolemaic regal statues of the queen in Egyptian style: the numerous examples used as models, analyzed in the catalogue and reproduced in the last part of this study, unequivocally clarify the obvious 'formal' and / or conceptual dissimilarities with the Alexandrian masterpiece - finely rendered by the artist in hard black Egyptian granite - which is in fact unique in the widest context of reference. In our case, the missing dorsal pillar, a common feature of Egyptian statues, particularly of female ones, is immediately apparent, with the exception of a statue of Arsinoe II bearing an inscription in hieroglyphics, posthumously hosted in the Metropolitan Museum of Art in New York.

      Together with the stylistic characteristics of the work and the appraisal of the similarities with the divinized Cleopatra of Esquiline, the absence of the dorsal pillar reveals an unequivocal 'contamination' in Greek 'style' and represents a further indication of its dating. Indeed, if we exclude a more ancient dating of the monument - which we consider highly improbable for the reasons listed above - we would date the sculpture to the second half of the first century B.C., thus giving further confirmation to our hypothesis as to identification of the figure represented.

      As for the Roman statue, the particular anatomical element of the deformation of the abdomen betrays signs of a recent pregnancy, an aspect also indicating the clear political and propagandistic intent of the last Alexandrian queen of 'legitimating' the succession of the son she had with Caesar to the Egyptian throne. Following opportune appraisals we may consider the Roman statue as the terminus post quem for the dating of Canopo's copy in Egyptian style, who seems to have used the statue as his particular western model. Thus we have a new syncretic fusion; by introducing a completely innovative element to the figurative narration in Egyptian style, as well as producing a subtle and refined innovation and 'contamination' of the iconographic tradition of Pharaonic origin, Cleopatra VII is portrayed as Isis-Aphrodite following her re-entry in Egypt (44 B.C.) from her temporary Roman residence. From a more in-depth critical reading of the available documents, and study of the process of deification of the Macedonian rulers in Egyptian territory because of their ever-growing need to legitimize the new foreign dynasties, in the second chapter of this volume we have tried to characterize and decipher the deeper political reasons underlying Ptolemaic society in relation to the complex administrative, religious, cosmological and mythological apparatus consolidated by the thousands-year-long history of the Pharaohs and which the new rulers of Egypt were completely unable to ignore or underestimate. First, it was necessary to meet the consensus of the religious leaders. The powerful political-propagandistic apparatus found, once again, in its iconographical and monumental 'translation' the main expression and direct vehicle of transmission to the people. Therefore, our attention has focused mainly on the deification of the Macedonian Queens and, in particular, on the plentiful iconographical production which conveys its fundamental characteristics and which will finally lead, with its variations, to the portrayals of the last Alexandrian Queen.

      Apart from one or two exceptions, the Ptolemaic Queens who succeeded Arsinoe II Philadelphos were elevated to divine honours. Arsinoe I, who died in 270 B.C., is placed next to her spouse and her brother (who was still alive) in religious representative statues and in temple reliefs: both were venerated as theoi adelphoi. At the time of this study, however, no temple relief of the era of king Saiti or Nectanebo depicting rulers placed next to Pharaohs is known. The archetypical model of reference, which in semiotic terms we would define as the primary modeling 'text', can be traced back to the rare examples of the preceding ages in which the Queens are represented as offerers. Although these examples represent the point of departure for Ptolemaic figurative 'narration', it is only with the advent of the Lagids and, as stated, beginning with Arsinoe II, that a new practice is inaugurated, that of placing the statue of the dead Queen also in Egyptian temples next to the local gods, according to a custom followed by the Caesars in the sanctuaries dedicated to them (the caesarea). Regarding Arsinoe II, the presence of certain elements, for example, the presence of the lily/sceptre, a direct tie with the iconography of the Queens of the New Reign, above all of the Theban environment, which characterized the queens (divine spouses) of the later ages.

      In the official list of titles handed down by several temple inscriptions, the Queen is defined as 'daughter of Amon' (zat 'Imn) and/or the God's 'wife' (hmt-ntr). "[...] Various are the aspects of the protocol and iconography of the queen which refer to the most ancient 'divine spouses' and, in the reworking of the pleated dress, the Queens of the New Reign" are explicitly mentioned: (CAPRIOTTI VITTOZZI 1998:58). Both the apparel and the title of 'Spouse of the god' indicate Queen Nefertari, spouse of Rameses II. The same iconographic type was employed in the representation of the deified Queen Ahmose-Nefertari, 'Divine Spouse', at the beginning of the XVIII Dynasty and whose image probably had great importance, as documented in the relief on the south wall of the temple of Karnak, depicting Rameses II during a rite in the presence of Ahmose-Nefertari represented in pleated dress and with a lily/sceptre in his hand. The memory of Ahmose-Nefertari very likely influenced the religious establishment responsible for the elaboration of the image and dynastic cult of the Philadelphus. This kind of iconography was however taken up and reinterpreted throughout the Ptolemaic age, of which the distinguishing mark, within the iconography of Egyptian origin, was that of re-using the models of the past, strengthening the 'code' and adapting it to the new dynastic requirements.

      The apotheosis of Arsinoe II and its cult quickly spread throughout the empire, as is confirmed by a great deal of evidence, financial and fiscal, ceremonial and official as well as iconographic, found in Alexandria, in the Fayum, in the temples and the Nomoi and, last but not least, in the foreign territories subject to Lagid jurisdiction. Many cities took on the name of the queen and numerous monuments were dedicated to her. The special attention the Queen gave to the sailors and navigation, characterizing her as 'Mistress of the seas', led to her being identified with Aphrodite, the goddess who, among the many names, included that of Pontia, that is protector of the sailors. The great veneration of Egyptian sailors for Arsinoe also favoured the assimilation of Aphrodite to Hathor, the Egyptian goddess of all the women, of Eros and fertility, which, at the beginning of the Pharaonic age is associated with Isis, to whom it yields its fundamental attributes (the solar disc and the bovine horn) as well as the protecting divinity of sea journeys to Biblos and shipments along the Red Sea. Pharaohs inside the Egyptian borders, Hellenistic rulers beyond the Land of the Nile, the deification of the Ptolemaic people was thus bound on one hand to the local religious rituals, and on the other hand to the dynastic cult of Greek-Hellenistic derivation. This 'bilingualism' and religious syncretism were also applied indifferently to the queens. Numerous inscriptions and archaeological and iconographic evidence allow us to reconstruct precisely the complex and articulated religious and cultural apparatus on which the political strategy of the new dynasty was based. Historians and men of letters were interpreted and promoted the Lagids' political and religious programme. One such historian was Ecateo of Abdera who moved to Alexandria around 320 B.C. and wrote a history of Egypt in four volumes, believed to be lost, although some fragments still survive in Diodoro Siculo's description of ancient Egyptian rulers. As a matter of fact, during the reign of Ptolemy the Soter, Ecateo made use of the legendary tradition which established that Greece and other vast areas of the known world had been colonized by the Egyptians. Thus, Ptolemy I's accession to the Egyptian throne would thus have met full legitimacy in a kind of 'return to the origins'; at the same time, the Nile region would be attributed a dominant position as the cradle of civilization. Amongst the men of letters Callimachus is responsible for of the cataloguing of the Library of Alexandria, Posidippus of Pella is the author of two epigrams in honour of Callicrates, who had had the Zephirion, a temple dedicated to Arsinoe II, built. In virtue of the particular attention she gave to sailors and navigation, the deified queen was also called 'Zephiritis', 'the lady of the Zephyr'), the name of a calm and regular wind favourable to navigation.

      In reference to the cult of Macedonian rulers, the more obvious aspect of the religious syncretism promoted by the new dynasty was, quite undoubtedly, the Isis-Aphrodite juxtaposition. Already widespread from the beginning of the Ptolemaic age, this religious 'fusion' between the two divinities, promoted by Hathor, was also expressed in numerous iconographical representations of Isis-Aphrodite, undergoing variations, interpretations and adaptations due to new stylistic-cultural languages up to the Roman age, when there was a vast production of small statues and terracotta figures portraying the nudity of the Olympic divinity in various forms.

      However, alongside the official cult of the Macedonian dynasty, there were also popular worship and cult. There is archaeological evidence, in fact, of numerous private sanctuaries and a rich production of oinochoai in faïence with scenes in relief that depict the queen - in some cases there is an inscription identifying her - holding in her arms a cornucopia, like a goddess, near an altar. These objects testify to the diffusion, assimilation and survival of the cult of the Ptolemaic Queens permeating the whole of society.

      Identification of successive rulers of the Lagid dynasty until Rome started to govern Egypt was facilitated by the cult names assigned to each ruler of the dynasty, in order to propagate the religious protocol and the respective political programmes. While the numeration that accompanies the names of Macedonian rulers in Egyptian territory is merely a convention used in modern historiography, the attribution to each ruler of a particular cult name, following a clearly Hellenic practice, also used in Syria by the Seleucid dynasty, helped their people to distinguish the new rulers, who had the same dynastic name: Ptolemy for the male rulers, Berenike, Arsinoe and Cleopatra for the females.

      This peculiar cultural 'bilingualism' of the Macedonian rulers also involved the ordaining of priests. Two different ways of selection, Greek and Egyptian, were employed for priests and priestesses: in the area of Alexandria almost all the priests were of Greek-Macedonian origin and chosen from the more socially elevated Alexandrian families. They were assigned a title which defined their cultural characteristic: kanephoros - for example - 'carrier of the golden basket' for Arsinoe II Philadelphos, and atlophoros, 'carrier of the price of victory' for Berenike II Evergetes. We can find evidence in Greek and popular idiom all over Egypt of these names, at least for Alexandria, from about 285 to 100 B.C., until this institution totally disappeared: indeed, Cleopatra III, Ptolemy IX Soter II and Prolemy X, Alexander I, were themselves priests celebrating their own cult. From the year 84/83 B.C., however, there is no documentation available as to the names of priests, and, regarding the cult of the Queens, we have their names only as far as Arsinoe II is concerned. The frequent use in official documents of the names of the Alexandrian priests and, only occasionally of the Egyptian priests involved in the cult of the rulers, is a fundamental element in establishing dates.

      In the case of Arsinoe II, the popularity and propagation of the cult of the deified Queen are still evident not only in the numerous place names (many cities were named, in fact, after the ruler), but also in the great deal of private monuments found outside Egypt. In the same way, many place names are inspired by the names Berenike and Cleopatra which, besides the dynastic name of the male rulers of the dynasty, were often used as first names by the Egyptians as a sign of profound respect for the royal family.

      There is, however, very little evidence of the cult of the last Ptolemaic Queen - she did not escape the severe damnatio memoriae of Octavius. In particular, there is a graffito in Demotic script dated 373 A.D., the work of Petesenufe, a scribe of Isis, that reports the restoration and the gilding of a statue of the Queen.

      As regards this statue, and the statues dedicated to this queen in general, and as far as the Hellenistic-Roman iconographic production is concerned, although the results of our research have, on one hand, corroborated the portraits of Berlin and of the Vatican as well as the most recent archaeological acquisitions pertaining to the last Alexandrian Queen. On the other hand, as regards the controversial identification of the Capitoline Cleopatra (for which our conclusions diverge from those of researchers who identify it on the basis of their dating, also establishing for the first time its original location, as well as the probable patrons) and of the so-called Nahman Cleopatra, our approach has been even more cautious while critically analysing the iconographic documents in Egyptian style. By virtue of the extreme complexity of the figurative narration, the fragmentary nature of archaeological evidence and/or the lack of inscriptions, the in-depth analysis of Ptolemaic female regalia statues of the Pharaonic age, has made our work heavier, even though, on the whole, it has not compromised the results and interpretation. Beyond a merely stylistic and/or iconographic appraisal of the examples considered, in some cases the semantic and historical analysis of the triple Uraeus on the head of some Ptolemaic queens which we carefully examined in the monuments catalogue, has allowed us to gain more insight and, finally, to refute identifications put forward by other researchers.

      It has been substantially accepted by researchers that the double Uraeus (an infrequent decoration on the forehead of Egyptian rulers, and, from XVIII Dynasty, more often on queens' heads) is related to the reign over the Two Lands, that is, Upper and Lower Egypt; it was taken up by the Nubian rulers who used it in a semantically differently way to emphasize their own double dominion over the kingdoms of Egypt and Kush.

      Instead, the triple Uraeus, as G. Capriotti Vittozzi (1995: 429-430) affirms "[...] being on the forehead of Queens, seems not to refer to a conquered royalty, as was suggested in reference to the XXV Dynasty, because we would also find it on the statues of kings". In reference to the bust of a Ptolemaic Queen in the Museum of Egyptian Antiquities in Turin (See Cat. 28, Pl. XXXV, 77-78 of this work), the researcher goes on to say: "In the search for a solution to this problem, identifying the Turin statue as Berenike II may offer possible answers: this Queen, heir of Magas of Cyrene, perhaps reigned over Cirenaica either alone or together with her father; she, in fact, brought this reign with her when she became Queen of Egypt. It is possible that such an important event for Lagid politics also became part of the propaganda and therefore was transmitted to the population in the statues of cult dedicated to this Queen and by means of traditional iconography".

      In this perspective, therefore, there are good reasons to assert that the triple Uraeus, found on the head of only some Ptolemaic Queens, symbolizes their reign not only over the Two Lands, Upper and Lower Egypt, but also over a foreign territory on the Egyptian border. According to S. Ahston, it should be the characteristic feature of Cleopatra VII differentiating the statues of the Queen from those of Arsinoe II, although he fails to mention the examples which he believes should present definite iconographical analogies between the two, but causing a certain confusion as to their identification, for queens (as there is no notable and characterizing element - like the triple uraeus) in view of the information briefly outlined above; the triple royal ornament seems to have been shared by the Macedonian Queens. Indeed, the only three queens to reign over other territories apart from Egypt, that is, Cirenaica, Celesiria and the ancient Seleucide reign, were respectively Berenike II, Cleopatra I and Cleopatra VII.

      In addition to the formal-stylistic appraisal and the analysis of the single physiognomic data that, although 'compromised' in its expression by a figurative language of pure Egyptian style far from the classic portrait tradition, reveals the presence of signs which characterizes that culture and period, the above observation has led us to almost completely reject the identification of some statues with the last Alexandrian queen. Based on what we believe was dictated not really by an in-depth and rigorous scientific analysis (on the contrary, its reasoning is rather weak), rather by a probable pressing need to set up an exhibition. The statues of Ptolemaic Queens at the Ermitage in St. Petersburg (Pl. XL, 89-90), of the Rosicrucian Museum of San José (California) (Pl. XLI, figs. 91-92) and the small statue in the Metropolitan Museum of Art in New York (Pl. XX, 36) do not seem at all like Cleopatra VII. The only doubt regards the small head of Ptolemaic Queen with triple uraeus in Egyptian style of the Brooklyn Museum of Art in New York (Pl. XIX, 35) which, unlike the examples cited above, in our opinion represents an unquestionable anatomical element, inherited by the last Cleopatra from the founder of the dynasty: prognathism characterising all the queen's known portraits. Therefore we propose to identify this latter monument with the last Alexandrian queen, in expectation of new contributions from scientific research.

      Therefore, besides the famous relief on the south wall of the Temple of Hathor in Dendera, which depicts the queen together with her son Ptolemy XV Caesarion (Pl. XXIV, 43), the stele preserved by the Départment Des Antiquités Egyptiennes of the Louvre Museum (Pl. XXIII, 42), that in the upper register depicts the queen as a typical Pharaoh in the presence of Isis seated and intent on breast feeding her son Horus, as well as the relief of the mammisi in the Temple of Montu in Armant depicting the mythical birth of Ptolemy XV Caesarion from Cleopatra-Isis, in the presence of Amun-Re and the goddess Nechbet (included here in a reconstructive drawing) (Pl. XXVII, 46), the results of our work on the Egyptian figurative representation of Cleopatra VII have helped us identify the deified image of the Queen only in the acephalous statue discovered on the sea-bed of Thonis-Heraklion near Canopus (supra). We could probably add a regal crown with an inscription by Coptos preserved at the Petrie Museum of Egyptian Archaeology, University College of London (See Cat. 9, Pl. XXII, 40-41 of this work). The fragment discussed, relative to the coronation of a statue that has unfortunately been lost, is characterized by the usual solar disc between the bovine horns, enriched with two high plumes: in the middle there are three uraei. The title in the inscription on the dorsal pillar, 'daughter of a king, sister of a king, great royal wife' which had also described Arsinoe II, is in truth perfectly applicable to the last of the Ptolemies. If on one hand the presence of the triple royal insignia, and the form of the crown (quite different from the usual type worn by the Philadelphos) represented without a cobra on it or, like in an example from the temple of Horus in Edfu, with a double cobra corresponding to the double uraeus on the statues, seems to exclude it being identified with this monarch, although the peculiar element characterized, as we have seen, the images of Berenike II first and of Cleopatra I later, the inscription on the dorsal pillar cannot but exclude categorically the fact that the royal crown also belonged to these two Queens.

      Regarding, therefore, the portrayal of Cleopatra VII both in Hellenistic-Roman style (with the exception of coins and the representations on Roman oil-lamps which depict the queen in quite a sacrilegious way), and in Egyptian style, our analysis allows us therefore to establish the following identification: a) Representation of Cleopatra VII in Greek-Roman style: 1) Portrait of Cleopatra of Berlin (Staatliche Museen zu Berlin. Antikensammlung); 2) Portrait of Cleopatra in the Vatican Museums (Museo Gregoriano Profano); 3) Portrait of the so-called Nahman Cleopatra (London - European Private Collection); 4) Statue of Cleopatra as Isis-Afrodite, or the Esquiline Cleopatra (Rome, Palazzo dei Conservatori, Capitoline Museums); b) Representation of Cleopatra VII in Egyptian style: 1) Relief from the Temple of Hator in Dendera; 2) Stele of Cleopatra VII in the presence of Isis lactans (Paris, Musée du Louvre); 3) Relief of the miraculous birth of Ptolemy XV Caesarion from Cleopatra-Isis in the presence of Amun-Re and of the goddess Nechbet, from the mammisi in the Temple of Montu in Armant; 4) Head of Cleopatra VII (?) (New York, Brooklyn Museum of Arts) 5) Royal crown with inscription, from Coptos (London, Petrie Museum of Egyptian Archaeology, University College London); 6) Acephalous statue of Cleopatra from the sea-bed of Thonis-Heraklion near Canopus (Alexandria, Great Library).

      Despite the aid of other analogous and complementary disciplines, the application of the traditional archaeological and historical-artistic methodology has once again been adequate for the analysis of the archaeological objects studied and of the most wide-ranging cultural reference context; the extreme complexity of the topic dealt with in the fourth chapter of the volume, revealing its intrinsic limits in the possibility of applying it indiscriminately, have sped up research and successive use of a different methodological approach. If, on one hand, Lagid figurative narration can generally be divided, as we have seen, into two large 'blocks' - Egyptian on one hand, Hellenistic on the other - which can be in turn divided into what we have defined as 'codes' and 'subcodes', in relation to the 'purity' and/or the compositional 'contamination' in one or the other direction, it is also true that there exist cases in which this schematic classification, deriving from a 'stereotype' or 'strong figure' of the codified figurative narration, already evolved and mediated inside the broadest iconographic reference context, and becoming more and more complicated, can no longer be applied. Indeed, although specific cultural connotations are kept in its 'form', the primary information, in order to be read and decoded, needs further analytical tools that can penetrate inside the Ptolemaic polyglot and syncretic 'message', which will necessarily have a multiple interpretation.

      In this perspective, if we take as a model an archaeological-artistic object that is undoubtedly the most controversial and enigmatic of Ptolemaic figurative representations, that is the famous sardonyx phiale, better known as the Taz Farnese, we have turned to a semiotic analysis of the object, using new critical and heuristic possibilities, in the attempt to offer the student, the Egyptologist and the historian of Hellenistic art a valid instrument for analysis. From the 1970s, thanks to the intense pioneering activity of J.M. Lotman, figurative art, figurative 'language' that is, has entered the semiotic field. The application of the notion of 'text' to the work of art, be it a painting or a statue, as the result of the most recent developments in general semiotics, that is, the general theory of signs and Slavic systemic semiotics (with particular reference to developments in the discipline brought about by the Moscow and Tartu schools about the semiotic cultural mechanism and secondary 'modelin systems'), as well as the concepts of 'figurative sign', 'figurative language' or 'figurative text', represent have become the fundamental instruments of our approach. Our quite ambitious aim was that of attempting to decipher what we believe represents the most hermetic 'figurative text' of Lagid 'propaganda', a 'riddle' which has become the paradigm of its complex and articulated iconographical production. Instead, by applying this method specifically to an Egyptological archaeological context, our intention was to offer the disciplines directly involved - Egyptology and classic archaeology - a different perspective, enhanced by the continual appraisal of the social-political-economic and religious propagandistic substratum, from which the representation studied here draws origin.

      Thus, starting from the concepts of 'position of speaker' and 'position of listener' perfectly applicable to the Ptolemaic cultural context - inside which we constantly find an intersection of planes and levels - our figurative 'text' supplies us with a double line of interpretation: esoteric and exoteric, that is, sealed, hermetic, inaccessible on one hand, destined to an expert 'observer'; overt on the other hand.

      Where a general study of the figure enclosed within the famous phiale (what in semiotic terms is defined as continuous text) conceals the primary entropic information from which the same figure draws origin, our analysis, dealing particularly with the fragmentary text in more detail, with the deciphering, that is, of the several polysemic icons (also called discreet symbols) present in the narration, has gradually allowed us to achieve the greatest possible decoding of the 'message'/meaning (which would otherwise be obscure) in iconographic translation.

      Proceeding, therefore, from a careful observation of both 'positions' (supra), inside which each element or 'sign' finds expression and survives like a separate 'microcosm', although directly connected with the others, constituting the base for the very survival of the sign 'macrocosm' it becomes part of, the results of our study have led us to identify a much more articulated and complex cultural root and message/meaning than those which at first sight the object might suggest.

      The figurative cultural and/or linguistic pluralism, from which the iconic grammar of the Ptolemaic age draws origin and that, ever since its birth 'will speak' Egyptian and Greek, is characterized by a kind of bilingualism whose components will blend at various levels, generating a most original cultural syncretism in the widest meaning of the term; thus, it will achieve, inside this figurative 'text', its highest expression, giving rise to a kind of 'lingua franca' of great sign value.

      The high degree of iconicity of the sign, depending on the codes typical of the Pharaonic figurative production on one hand (the sphinx in our case), Hellenistic on the other (the rest of the figurative production), and constituting the Leitmotiv of the 'semantisation' of the figurative code, has encouraged our work. We have attempted, following the traces of a circumstantial paradigm, to decrypt, interpret and render accessible what has up to now appeared as an obscure 'text', its meaning incomprehensible, clear only to a few experts, and that, although studied and interpreted in various ways, has appeared to most scholars as 'missing' something, as having a 'mutilated' meaning; in fact, it is read only partially in view of its formal 'appearance' that, except for the sphinx placed inside the phiale, is expressed in a lexis or, more precisely, in an alphabet and/or a graphical iconographic 'sign' of clear Hellenistic mark.

      However, this alphabet, this graphic 'sign', far from lacking in its chief cultural identity, appears, after a more careful examination and on a different exegetic level 'position of the speaker' or 'esoteric' comprehension key) the sign system required for the transliteration of a 'message'/meaning underlying a piece of entropic primary information, of purely Egyptian kind. Beyond the merely descriptive aspects of the figurative narration, that sometimes coincide with the studies carried out up to now, by trying to 'penetrate' the intrinsic polisemic value in each symbol, also called a discreet sign or fragmentary text, and analyzing the object from an Egyptological perspective, we have come up with results that contrast with those of previous studies by other researchers dealing with the monument we are studying.

      Through an in-depth study of the cosmological-mythological aspects related to the Egyptian cultural universe and a simultaneous internal and external reading of the sema, here interpreted as an iconic 'sign', the results of our study have allowed us to reach, except for some rare exceptions, to completely fresh conclusions in relation to the historical and/or mythological-religious identification of the historical figures at the fulcrum of the figurative narration.

      On the other hand, a cross-checked reading of the collected data, as well as the precise identification and citation of 'the primary modeling texts' that, being the iconema fulcrum of various discreet symbols or fragmentary texts within the syntactic structure of the figurative representation, have led us to reconsider the entire issue, identifying, first of all, within the polyglot cultural code expressed by the figurative narration, the iconic translation of the concept of Maat (order, truth and justice), taken from Egyptian mythological - religious lexis, that is, relating to 'the position of the listener', called in Greek, ¿unomìa.

      The analysis of the intrinsic polysemous value we detected in the iconic sign of the sphinx, finding a precise iconographic archetype, or primary modeling text, in the Ptolemaic reliefs of the altars dedicated to Osiris inside the Temple of Hathor in Dendera (Tab. LII-LIII, 108-109) and in other temple portrayals of the time, where the god assumes a position we could define as 'sphinx-form', has helped us to recognize in the 'sign' inside the phiale the mythological representation of the death and resurrection of the god, an emblem of the unchangeable and, thus, a symbol of eternal life. Therefore, the sphinx placed on the bottom of the Tazza Farnese can no longer be historically identified with the ruling Pharaoh (represented here by the vigorous handsome young man placed centrally behind the lying female figure, identified in fact as Horus-Triptolemus and, therefore, as the ruler, the living Horus); indeed, it reaches its highest semantic value and is transformed into the symbol of divine royalty, operating a kind of semic and linguistic fracture of the original iconema.

      Our study has historically confirmed the intuition of P. Moreno who recognized in the face of the sphinx the physiognomic characteristics of Ptolemy VIII Physcon preserved in the black diorite head of Brussels (Pl. XLVI-XLVII, figg. 100-101, Pl. LII, fig. 110) - although the scholar thought it was the ruling king; he also identified the queen's face as that of Cleopatra III represented here as Isis-Demeter recalling the physiognomic and iconographic features of the Hermopolis portrait of the queen in the Louvre (Pl. XLV, fig.98). Moreover, our work has highlighted in the face of Horus-Triptolemus precise physiognomic analogies with a portrait of a Ptolemaic ruler (Roman copy of an Alexandrine bronze) in the Villa of the Papyri and preserved in the National Archeology Museum of Naples (Pl. XLVIII, fig. 104).

      We have decided that it does not portray Ptolomy X Alexander I, on the basis of data Athenaeus supplies regarding the physical characteristics of the ruler (12, 550 b), according to which the second-born of Physcon and Cleopatra III had inherited his father's obesity; we therefore suggest that the Horus-Triptolemus in the Tazza Farnese is Ptolomy IX Soter II who, together with his motherm, had governed the country in turn with his brother.

      The procedure we have followed has helped us define, in each iconic 'sign' or discreet symbol within the representation, its precise identity from the cosmogonic-religious perspective. Consequently, we hope that the subject taken into consideration and the methodology followed may arouse the interest of the experts and open the field up to new contributions.


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